GUIDI: LO SPIRITO DE LA CAPANNINA COME ANTIDOTO ALLA PAURA DEL COVID-19

Faccia a faccia tra il patron del mitico locale e il direttore Luca Telese. I sogni e il futuro successi e insuccessi dell’imprenditore. La passione e il prossimo Capodanno.

APPROFONDIMENTO
Luca Telese
GUIDI: LO SPIRITO DE LA CAPANNINA COME ANTIDOTO ALLA PAURA DEL COVID-19

Faccia a faccia tra il patron del mitico locale e il direttore Luca Telese. I sogni e il futuro successi e insuccessi dell’imprenditore. La passione e il prossimo Capodanno.

Quando vado a trovare Gherardo Guidi alla Capannina, poco prima che tutto riparta, ci ritroviamo sul palco del locale che ha fatto la storia della Versilia e del costume italiano. Io e lui, seduti su due sedie, sul palco di legno a gradoni che ha ospitato tutte le orchestre e le star di un secolo. L’uomo che ama far girare la giostra, e che ha scelto ogni volta in meglio per le sue serate, questa volta racconta e si racconta. Per una volta il protagonista unico del cartellone è lui.

Cosa hai imparato dal Covid?

Tu vuoi sapere da me cosa ho imparato dal Covid?

Esatto.

Ehhhhh….

“Ehhhh” cosa?

Sai, la Capannina ci può insegnare molto su questo tema…

Perché?

Intanto è nata molto prima che arrivassi io, nel 1929.

Una storia lunga e complessa anche prima di Gherardo Guidi.

Oh, certo! Nel 1939 aveva preso fuoco ed era andata distrutta. Ma l’avevano ricostruita subito, e nella forma che vedi.

Non hai più toccato nulla della struttura?

Scherzi? La Capannina è questo. Sono venuti, architetti di grido, a dirmi che la dovevo rifare da capo, che avevano delle idee, ma io non ho mai toccato nulla. Guardati intorno.

Proprio nulla?

Solo restauro. È semplice, elegante. È così. E non è solo mia. C’è gente che mi dice: “Io vengo qui da sempre”

Dopo la ricostruzione cosa accadde?

Dopo quel rogo la Capannina ha iniziato la sua seconda vita e non si è fermata più. Se non due volte.

Quali?

Un anno, nel 1943, per colpa della guerra.

E la seconda volta?

L’anno scorso, per il Covid. Ma calcola che nel 1943 avevano dovuto mandare i miliziani, per essere sicuri che fosse chiusa. Perché qui non voleva chiudere nessuno. Dal 1960, come è noto, l’ho presa in mano io.

Per questo ti ha pesato molto la chiusura obbligata.

Si, perché noi siamo come la vita: sia se piove o se fa bel tempo, sia che si soffra, o che si goda, noi siamo sempre aperti. E adesso che torna la vita dopo la pandemia torniamo come prima, con qualche insegnamento in più.

Quale?

Tu devi sapere che mentre eravamo chiusi, durante il lockdown e anche dopo, io la notte mi sognavo le serate di capodanno che avevano fatto qui.

Come nel cantico di Natale di Dickens, invece di sognare i Natali passati, tu sognavi i capodanni.

Si, mi è mancata molto la gente, lo spettacolo, la libertà. Torno ad aprire con maggiore consapevolezza di prima.

Cioè?

Con molta più passione che negli ultimi anni prima della Pandemia.

Molti dopo il Covid hanno gettato la spugna, qualcuno ne ha approfittato per andare in pensione.

Ah ah ah.

Prego?

Cos’è la pensione? Io finché il padreterno non decide di levarmi di mezzo resterò qui.

E questa estate?

Abbiamo riaperto con la voglia di recuperare tutto quello che la Capannina ci ha dato, in questi anni, e che il Covid ci aveva tolto. Riapriamo per recuperare qualcosa che adesso io ho molto più chiaro in testa, di prima.

Cosa?

(Ride. Sospira. Allarga le braccia) Ma come cosa? La voglia di vivere!

Da dove cominciamo?

(Sorriso). Dall’inizio.

Da quando non hai fatto quello che la famiglia si aspettava da te?

Se è per questo non ho fatto nemmeno quello che io stesso mi aspettavo da me. Noi Guidi si viene da Castelfranco Santacroce. Terra di concerie.

E cosa immaginavi per la tua vita?

Io volevo fare il chimico.

Tua madre che faceva?

La sartina.

E tuo padre?

Aveva delle terre e un certo fiuto per gli affari: commerciava in tutto.

Però avevi anche un’altra passione, la musica…

Questo è stato determinante.

Perché?

(Gorgheggia, accenna i versi di una romanza e ride) Nasco come tenore…

Lo vedo.

Prima ho studiato con un maestro a Montecatini. Poi a Firenze. E lì mi dicono che ho talento, che devo andare a studiare a Santa Cecilia, a Roma.

E cosa avevi in mente?

Fare il batterista, fondare una mia band. Avevo già in mente un nome…

Quale?

Gherardo Guidi e the Cuban Boys!

Fantastico!

Non per mia madre…

Si preoccupa?

Ero figlio unico, e lei dice a mio padre: “E se questo figlio ora se ne va a Roma, chi lo rivede più?”.

E qui entra in campo tuo padre.

Un giorno se ne parte per Genova, dove abitava il proprietario di un locale di una certa fama, la Sirenetta di Castelfranco.

E cosa va a fare?

Me lo compra.

Però!

Avevo a malapena l’età per andare a ballare, mi trovai proprietario di un locale da ballo.

Un genio, tuo padre. E così ti ha tenuto in Toscana!

Esatto. La Sirenetta è stato uno dei primi dancing della provincia di Pisa. Ma non andava molto bene, era gestito male. Il mio babbo me lo mette in mano.

E addio Roma.

Addio a Santa Cecilia.

Tu, c’eri mai andato alla Sirenetta?

No. Pensa che a me all’epoca piaceva la Bussola. Quando avevo delle amiche non mi dispiaceva.

Quanto costò?

Diverse centinaia di milioni. Ma sappi per questa intervista che io non parlo mai di soldi, non faccio cifre. È di cattivo gusto.

Che tipo eri?

Quando mi ritrovo tutto questo in mano? Apparentemente un giocherellone.

Però scopri subito di avere delle doti manageriali.

La serietà la devo a mia madre. E uscì fuori.

Ad esempio?

Pensa che iniziai subito ad organizzare un servizio d’autobus per portare le ragazze e i clienti nel locale.

La musica di quel tempo era quella di un altro secolo.

Gino Latilla, Nilla Pizzi, Claudio Villa.

E tu avevi in mente altro.

Per fare un solo nome: Carosone. Il mandolino e Napoli contaminati con il Jazz americano.

Fantastico. Ti piacevano i Coroner, i cantanti del liscio, l’atmosfera dei piano bar e dei dancing…

Mi piacciono ancora ora. Un amico di recente mi ha fatto ascoltare le prime dieci canzoni di Barry White.

È un esercizio che consigli?

Io credo che non ci sia nessuno – ancora oggi – che gli possa tenere testa.

E tu, che sogni l’America, da dove cominci?

Alla Sirenetta nel 1961 arriva Little Tony!

Il tuo primo passo da direttore artistico, quello che poi avresti fatto per tutta la vita.

Arrivò con una Jaguar targata San Marino.

Era già famoso?  

Veniva da un Sanremo con Celentano, per il famoso duetto di 24mila baci, erano arrivati secondi.

E fu subito un successo?

Subito.

E cosa funzionava?

In lui? Tutto. Il ciuffo. Le canzoni, il personaggio. Il look con le camicie aperte sul petto alla Elvis. Trovavamo le ragazze nascoste negli armadi della sua stanza pronte a saltargli addosso.

Il secondo colpo?

Alighiero Noschese.

Il più grande degli imitatori dell’era della Rai. Il progenitore di Crozza.

Si, ma all’epoca, devi sapere, faceva ancora il coopilota all’Alitalia. Guadagnava 230mila lire al mese.

E tu?

Gliene offrii 160 mila di ingobbio per una sola serata: “Così in un solo mese guadagnai quanto prendi di stipendio in un anno intero e ti puoi dedicare solo alla tua arte”.

E poi?

Poi arrivano Edoardo Vianello. Un altro successone.

E Gino Paoli.

Ah ah ah. Il più bravo di tutti. Pensa che all’inizio il pubblico lo invocava e lui faticava a salire sul palco, restando attaccato al termosifone.

Come mai?

Gino si era messo con Stefania Sandrelli, che all’epoca aveva solo quindici anni.

Minorenne.

Esatto. Ma Paoli era sposato con Anna, un grande amica di Tenco.

E cosa accadde?

Paoli ripeteva che quello era il suo grande amore, Tenco che non era vero e che glielo avrebbe dimostrato. Gliela rubò. E poi lo disse a Gino.

Mi immagino la relazione.

I rapporti tra i due amici finirono bruscamente. Poi nel luglio del 1963 Gino si sparò al cuore con una Dillinger.

Senza riuscire ad uccidersi.

Il proiettile si fermò miracolosamente ad un millimetro dal cuore. Dove mi risulta che sia rimasto per sempre.

E quella sera?

Quella sera, per il grande ritorno c’era una folla incredibile. Lo avevo annunciato tre volte senza che uscisse, poi andai a prenderlo e lo trovai così: attaccato al termosifone. Ma fu un successo enorme, e tutti si sono dimenticati di quel proiettile. Tranne io e lui.

E poi c’erano le orchestre, il grande motore degli anni sessanta.

Arruolai i migliori di quel tempo: Fred Bongusto, Peppino di Capri, Perez Prado, Don Bucky, che divenne come un fratello… mi fermo qui, sennò facciamo notte.

E le donne?

Uhhhh tutte all’alba del loro successo. Te ne cito tre per darti l’idea: Patty Pravo, Caterina Caselli e Dori Ghezzi: ti basta?

E un insuccesso mai?

Uno, di cui ancora non mi faccio una ragione. Scritturai il grande Rocky Roberts, con il suo complesso gli Airedals. Calcola che aveva venduto milioni di dischi nel mondo, lo invitavano sempre alla Rai e….

E?

E invece locale quasi vuoto. Era il 1967 un altro mondo, un’altra Italia. Temo che molti rimasero spaventati per il colore della pelle.

Possibile?

Temo di sì. Poi, dopo il 1968, non contò più nulla.

E tu ti allarghi.

Dopo cinque anni – nel 1966 – prendo anche due locali estivi. Uno a Ponte a Egola, che ribattezzò l’Acropoli, è uno a Castelfranco, il (Peter Pan) dove apriamo i battenti con Patty Pravo.

Ti stavi avvicinando alla Capannina.

Tutto andava bene, e io marciavo verso il mare. Nel 1970 prendo il Carillon a Marina di Pietrasanta. E ci porto le Kessler. Ti immagini che bolgia?

Dadamumpa. Dadaumpa!

Ti sposi.

Con Carla. Bellissima già allora, la fortuna della mia vita.

E avevi voglia di Versilia.

Si ballava fino alle cinque del mattino. Mente nel resto d’Italia tutto si spegneva all’una di notte per obbligo di legge. Stefania Sandrelli aveva detto, in una celebre intervista: “La Bussola e la Capannina sono i luoghi più seri per sedurre: chi li frequenta non ha problemi di tempo. Si può osservare con calma. Si beve una cosa, la si offre. Si ascolta musica”. Altro che marketing!

E il Carillon?

Lo lascio dopo che i proprietari avevano rifiutato una offerta di acquisto. Mio padre diceva: “I Guidi non stanno in affitto”.

Poi c’è l’esperienza dei Tigli a Firenze, e poi iniziano ad offrirti la Capannina…

Non una, ma dieci volte. Ma io e Carla andiamo prima a Bologna. Vado a vedere lo Sporting Club, un locale di cui mi aveva parlato Morandi costruito in uno scantinato. Ci si entrava con le scale mobili.

E tu?

Me ne innamorai subito.

Il locale ebbe un grande successo, consolidò la tua fama, e poi?

In un solo colpo cambiai di nuovo tutto: cedetti lo Sporting, entrai nella Fiorentina. E…

Acquistasti la Capannina. Era il 1977.

È l’anno della Febbre del Sabato sera, della disco music… Porto nel locale tutta la mia storia passata, da Patty Pravo a Fred Bongusto, e tutta la mia storia futura, da Beppe Grillo, a Gigi Proietti, da Roberto Benigni ad Ornella Vanoni, a Grace Jones…

Che mi dici Beppe Grillo?

Un mostro, ovviamente sul palco. All’inizio suonava anche… blues. Come artista toccò il top negli anni ottanta, quando sviluppò la parte economica e satirica.

Piaceva molto…

Veniva giù la sala per le risate. Ma ecco l’aneddoto. Entrava prima dello spettacolo, con me e mi diceva: “Chi c’è in prima fila. Chi è quella signora? Come si chiama il sindaco? Dov’è seduto il prefetto?”.

E poi?

Poi durante lo spettacolo quei nomi saltavano fuori tutti, e tutti al momento giusto: la battuta sul sindaco, l’accento al prefetto, la stoccata alla signora ricca. Sembrava che conoscesse tutti da sempre, e che tutti finissero nel suo show. Una memoria pazzesca.

Grillo star.

Si, dopo, quando gli spettacoli sono diventati politici, si rideva meno. Dopo una serata alla Capannina ho capito che stava andando da un’altra parte.

E le colonne del locale?

Romano Mussolini. Un grandissimo professionista, molto amato, per la sua musica. Mai una serata sbagliata.

E gli ospiti?

Chiunque. Ma ti posso raccontare di una sera in cui arrivano Flavio Briatore e Naomi Campbell?

Si, certo. I due si notavano…

Ah, certo. Ad un certo punto della serata salgono sul tavolo e iniziano a ballare lì sopra.

E non ti piaceva…

Mando un caposala perché spieghi a questo signore quello che penso: “Qui, in questo locale siamo un po’ diversi. Si scende dai tavoli o si va via”.

E lui?

Si mette a ridere e replica: “Ah si? Allora mi compro tutto il locale!”.

E tu?

Gli mando una bella bottiglia di vino omaggio e un invito: “Non ripresentarti più”.

Ah ah ah.

L’anno dopo Briatore ha comprato il Twiga e ha iniziato a fare le serate ad ingresso libero e consumazione obbligatoria.

Diventi anche produttore per Sapore di Sale…

Pensa, un film destinato a diventare di culto, per la Capannina e per la Versilia, ma più volte rischiò di saltare…

Tu avevi dubbi sul cast?

Chiesi che ci fosse un grande nome per garantire il botteghino e trainare gli altri meno noti. Grazie a questa richiesta si scritturò Virna Lisi.

E perché stava per saltare?

Un classico. A metà delle riprese stavano sforando il budget. Angeletti e De Micheli, i due produttori, dissero: “Basta, la chiudiamo qui”. Poi intervenne l’agente di Jerry Calà, Claudio Bonivento, e fece da garante.

E come andò a finire?

Che per Sapore di sale 2 si scelse la Filmauro. E che Bonivento fu così bravo che divenne orditore.

E tu che segno hai dato al film?

La voce fuori campo del narratore e la scelta sulle canzoni anni sessanta. Non solo perché erano belle, ma perché così portammo al cinema due generazioni.

Un gruppo che ti ha deluso?

Ti ricordi i Coreana? Pensavano di essere dei fenomeni, non furono per nulla divertenti.

Uno che fa ballare anche i cadaveri?

Renzo Arbore. Un grande della tv, come tutti sanno, ma un grande anche un grandissimo artista dal vivo.

Uno che non ha funzionato come volevi.

Maurizio Ferrini.

Anche lui “arboriano”, per giunta…

Ma senza il suo tocco nazional-popolare. Ti svelo un segreto…

Quale?

Mettersi fermo, all’uscita del locale, a guardare le facce. Ad ascoltare i bisbìgli. Tu capisci tutto, di un artista, solo quando lo spettacolo è finito.

E cosa capivi di Ferrini?

Che la sua comicità lasciava il dubbio. Le mogli sussurravano ai mariti: “Mi spieghi cosa ha detto?”

Una che ti ha dato molto più di quello che immaginavi?

Ivana Spagna.

Dubitavi di lei?

La apprezzavo. Ma non credevo che arrivasse a tanto. Ho scoperto poi che conosceva la musica, che era molto preparata. Che sul palco inchiodava tutti.

Una grande orchestra italiana?

Armando Trovaioli. Il senso innato della melodia, unito alla capacità di far sognare, e ballare, tutti.

E i due figli di Sapore di sale dei Vanzina? Tu hai avuto - con le rispettive orchestre - sia Jerry Calà che Umberto Smaila.

Ehhhhhh…che dirti?

La verità.

Smaila è sicuramente più preparato. Però Calà fa sorridere.

Per un capodanno sei riuscito anche a scritturare Costanzo. Ma cosa è uscito fuori?

Sommerso da applausi. Ma non ho voluto ripetere. Si crede stupidamente che la gente voglia solo ballare ed evadere: invece è ancora più contenta quando l’intrattenimento ha contenuto.

E oggi lo rifaresti?

(Sospiro) se mi dici un altro che ha la popolarità del Costanzo di allora…

E poi?

Poi tutti: la Cuccarini, la Parodi, Carmen Russo. Tutti successi. Un mostro sacro: Gigi Proietti, venne con “A me gli occhi please”. Avessi avuto dei tavolini sul soffitto avrei venduto anche quelli.

E Benigni?

L’unico fine anno della sua storia. Un improvvisatore assoluto, si dice. Ma di una pasta particolare: di quelli che hanno già scritto nel cervello tutto quello che voleva fare.

Uno che la critica snobbava?

Nicola Arigliano. Mi fece successo anche al piano bar.

Uno oggi dimenticato?

Bruno Martino: un successo strepitoso.

Il tuo sogno realizzato?

Barry White. Ci sono serate che tocchi il cielo con il dito e dici: di più non si può fare.

Qualcuno che non sei riuscito a portare c’è?

Uhhhhh…

Cioè?

Mi è andata male. Con due grandi artisti.

Uno per cui ho sofferto molto Yves Montand. Grande attore ma anche grande cantante. Non tutti sanno che si chiamava Ivo Livi. E che era emigrato dall’Italia a Marsiglia all’avvento del fascismo.

Tre fratelli toscani, tutti orgogliosamente socialisti?

Esatto: era nato a Monsummano terme, Provincia di Pistoia.

E come andò?

Lo avevo corteggiato, vezzeggiato, gli avevo scritto, avevo parlato anche con il suo agente, avevo già trovato l’accordo con l’agente.

E poi?

Poi quando si arrivò al contratto il dolore di quello strappo da ragazzo, e di quell’esilio tornarono a galla. L’agente mi disse: “Yves non canterà mai più in Italia”.

Un altro no?

Ella Fitzgerald. L’usignolo del jazz, la più grande di tutte, tre ottave di estensione vocalica. Chiamai Norman Granz il suo produttore, gigante della musica, figlio di ebrei ucraini. Personaggio straordinario.

E come andò?

Nel 1994 eravamo già l’accordo su tutto. Non stavo nella pelle. Poi arrivò una brutta notizia.

Quale?

“Soffre di diabete” – mi riveló Granz – le hanno appena tagliato le gambe”. Rimasi di stucco. Smise di fare concerti. E due anni dopo arrivò la notizia che di quel male Ella era morta.

Storia terribile. A volte non ci sei arrivato per un soffio…

È l’ultima legge della Capannina: gli unici che non sono riuscito a scritturare sono morti.

Non ti sei mai schierato politicamente, ma hai fatto vincere la Dc contro il Pci in un’ occasione...

Ahhhhh… ma sul piano dello spettacolo.. C’era la festa nazionale dell’Unita a Tirrenia. E avevamo una serata pazzesca, con Francesco De Gregori.

E tu?

Vengo contattato dalla Dc che aveva la Festa dell’amicizia a Viareggio: “Ci serve un nome pazzesco”.

E tu chi ti sei inventato?

(Risata) L’unico modo era scavalcarli a sinistra e in alto…

Cioè?

Ho portato Neil Young.

Il principe della contestazione in mezzo ai democristiani?

Ehhhhh venne per me.

Che mi dici delle donne?

Un altro che è stato un pilastro della Capannina, Franco Califano, era uno degli uomini più corteggiati che io abbia mai conosciuto.

Più di Bobby Solo?

Facevano a gara. Alla fine stava male. Mi chiamò sette giorni prima di morire, e mi disse: “A’ Gherà, vieni a trovamme a Roma, se famo du’ spaghi all’ amatriciana”.

E ci sei andato?

No, devo confessarlo. Mi faceva troppo male saperlo ammalato, stanco, il contrario del leone che avevo conosciuto in Versilia.

E tu?

Io? Io non parlo di soldi e di donne. Ma mi piace molto una frase dell’avvocato Agnelli.

Quale?

“Le più belle non sono quelle che quando passa fanno fischiare tutti, ma quelle che fanno calare il silenzio”.

Tu mi hai detto che lo spirito della Capannina è uno dei modi per superare l’angoscia del Covid?

Ascoltami, ci ho pensato per tutta questa tristissima primavera: la paura fa sempre tristezza. E noi, insieme al virus, abbiamo combattuto contro la paura.

Hai scritto un libro.

Dopo il primo, con la mia storia, ne ho appena finito uno, poi narrativo. In stile… Eh eh eh. (Ride)

Cosa significa quel sorriso?

È un po’ alla Camilleri.

E alla pensione non ci pensi mai?

È una cosa naturale. Ma non per me.

Ah, bene...

(Ride) ho deciso che in pensione non ci voglio andare mai.

Davvero?

Ma certo. Sto già pensando al prossimo capodanno.