Quando vado a trovare Gherardo Guidi alla Capannina, poco prima che tutto riparta, ci ritroviamo sul palco del locale che ha fatto la storia della Versilia e del costume italiano. Io e lui, seduti su due sedie, sul palco di legno a gradoni che ha ospitato tutte le orchestre e le star di un secolo. L’uomo che ama far girare la giostra, e che ha scelto ogni volta in meglio per le sue serate, questa volta racconta e si racconta. Per una volta il protagonista unico del cartellone è lui.
Tu vuoi sapere da me cosa ho imparato dal Covid?
Ehhhhh….
Sai, la Capannina ci può insegnare molto su questo tema…
Intanto è nata molto prima che arrivassi io, nel 1929.
Oh, certo! Nel 1939 aveva preso fuoco ed era andata distrutta. Ma l’avevano ricostruita subito, e nella forma che vedi.
Scherzi? La Capannina è questo. Sono venuti, architetti di grido, a dirmi che la dovevo rifare da capo, che avevano delle idee, ma io non ho mai toccato nulla. Guardati intorno.
Solo restauro. È semplice, elegante. È così. E non è solo mia. C’è gente che mi dice: “Io vengo qui da sempre”
Dopo quel rogo la Capannina ha iniziato la sua seconda vita e non si è fermata più. Se non due volte.
Un anno, nel 1943, per colpa della guerra.
L’anno scorso, per il Covid. Ma calcola che nel 1943 avevano dovuto mandare i miliziani, per essere sicuri che fosse chiusa. Perché qui non voleva chiudere nessuno. Dal 1960, come è noto, l’ho presa in mano io.
Si, perché noi siamo come la vita: sia se piove o se fa bel tempo, sia che si soffra, o che si goda, noi siamo sempre aperti. E adesso che torna la vita dopo la pandemia torniamo come prima, con qualche insegnamento in più.
Tu devi sapere che mentre eravamo chiusi, durante il lockdown e anche dopo, io la notte mi sognavo le serate di capodanno che avevano fatto qui.
Si, mi è mancata molto la gente, lo spettacolo, la libertà. Torno ad aprire con maggiore consapevolezza di prima.
Con molta più passione che negli ultimi anni prima della Pandemia.
Ah ah ah.
Cos’è la pensione? Io finché il padreterno non decide di levarmi di mezzo resterò qui.
Abbiamo riaperto con la voglia di recuperare tutto quello che la Capannina ci ha dato, in questi anni, e che il Covid ci aveva tolto. Riapriamo per recuperare qualcosa che adesso io ho molto più chiaro in testa, di prima.
(Ride. Sospira. Allarga le braccia) Ma come cosa? La voglia di vivere!
(Sorriso). Dall’inizio.
Se è per questo non ho fatto nemmeno quello che io stesso mi aspettavo da me. Noi Guidi si viene da Castelfranco Santacroce. Terra di concerie.
Io volevo fare il chimico.
La sartina.
Aveva delle terre e un certo fiuto per gli affari: commerciava in tutto.
Questo è stato determinante.
(Gorgheggia, accenna i versi di una romanza e ride) Nasco come tenore…
Prima ho studiato con un maestro a Montecatini. Poi a Firenze. E lì mi dicono che ho talento, che devo andare a studiare a Santa Cecilia, a Roma.
Fare il batterista, fondare una mia band. Avevo già in mente un nome…
Gherardo Guidi e the Cuban Boys!
Non per mia madre…
Ero figlio unico, e lei dice a mio padre: “E se questo figlio ora se ne va a Roma, chi lo rivede più?”.
Un giorno se ne parte per Genova, dove abitava il proprietario di un locale di una certa fama, la Sirenetta di Castelfranco.
Me lo compra.
Avevo a malapena l’età per andare a ballare, mi trovai proprietario di un locale da ballo.
Esatto. La Sirenetta è stato uno dei primi dancing della provincia di Pisa. Ma non andava molto bene, era gestito male. Il mio babbo me lo mette in mano.
Addio a Santa Cecilia.
No. Pensa che a me all’epoca piaceva la Bussola. Quando avevo delle amiche non mi dispiaceva.
Diverse centinaia di milioni. Ma sappi per questa intervista che io non parlo mai di soldi, non faccio cifre. È di cattivo gusto.
Quando mi ritrovo tutto questo in mano? Apparentemente un giocherellone.
La serietà la devo a mia madre. E uscì fuori.
Pensa che iniziai subito ad organizzare un servizio d’autobus per portare le ragazze e i clienti nel locale.
Gino Latilla, Nilla Pizzi, Claudio Villa.
Per fare un solo nome: Carosone. Il mandolino e Napoli contaminati con il Jazz americano.
Mi piacciono ancora ora. Un amico di recente mi ha fatto ascoltare le prime dieci canzoni di Barry White.
Io credo che non ci sia nessuno – ancora oggi – che gli possa tenere testa.
Alla Sirenetta nel 1961 arriva Little Tony!
Arrivò con una Jaguar targata San Marino.
Veniva da un Sanremo con Celentano, per il famoso duetto di 24mila baci, erano arrivati secondi.
Subito.
In lui? Tutto. Il ciuffo. Le canzoni, il personaggio. Il look con le camicie aperte sul petto alla Elvis. Trovavamo le ragazze nascoste negli armadi della sua stanza pronte a saltargli addosso.
Alighiero Noschese.
Si, ma all’epoca, devi sapere, faceva ancora il coopilota all’Alitalia. Guadagnava 230mila lire al mese.
Gliene offrii 160 mila di ingobbio per una sola serata: “Così in un solo mese guadagnai quanto prendi di stipendio in un anno intero e ti puoi dedicare solo alla tua arte”.
Poi arrivano Edoardo Vianello. Un altro successone.
Ah ah ah. Il più bravo di tutti. Pensa che all’inizio il pubblico lo invocava e lui faticava a salire sul palco, restando attaccato al termosifone.
Gino si era messo con Stefania Sandrelli, che all’epoca aveva solo quindici anni.
Esatto. Ma Paoli era sposato con Anna, un grande amica di Tenco.
Paoli ripeteva che quello era il suo grande amore, Tenco che non era vero e che glielo avrebbe dimostrato. Gliela rubò. E poi lo disse a Gino.
I rapporti tra i due amici finirono bruscamente. Poi nel luglio del 1963 Gino si sparò al cuore con una Dillinger.
Il proiettile si fermò miracolosamente ad un millimetro dal cuore. Dove mi risulta che sia rimasto per sempre.
Quella sera, per il grande ritorno c’era una folla incredibile. Lo avevo annunciato tre volte senza che uscisse, poi andai a prenderlo e lo trovai così: attaccato al termosifone. Ma fu un successo enorme, e tutti si sono dimenticati di quel proiettile. Tranne io e lui.
Arruolai i migliori di quel tempo: Fred Bongusto, Peppino di Capri, Perez Prado, Don Bucky, che divenne come un fratello… mi fermo qui, sennò facciamo notte.
Uhhhh tutte all’alba del loro successo. Te ne cito tre per darti l’idea: Patty Pravo, Caterina Caselli e Dori Ghezzi: ti basta?
Uno, di cui ancora non mi faccio una ragione. Scritturai il grande Rocky Roberts, con il suo complesso gli Airedals. Calcola che aveva venduto milioni di dischi nel mondo, lo invitavano sempre alla Rai e….
E invece locale quasi vuoto. Era il 1967 un altro mondo, un’altra Italia. Temo che molti rimasero spaventati per il colore della pelle.
Temo di sì. Poi, dopo il 1968, non contò più nulla.
Dopo cinque anni – nel 1966 – prendo anche due locali estivi. Uno a Ponte a Egola, che ribattezzò l’Acropoli, è uno a Castelfranco, il (Peter Pan) dove apriamo i battenti con Patty Pravo.
Tutto andava bene, e io marciavo verso il mare. Nel 1970 prendo il Carillon a Marina di Pietrasanta. E ci porto le Kessler. Ti immagini che bolgia?
Dadamumpa. Dadaumpa!
Con Carla. Bellissima già allora, la fortuna della mia vita.
Si ballava fino alle cinque del mattino. Mente nel resto d’Italia tutto si spegneva all’una di notte per obbligo di legge. Stefania Sandrelli aveva detto, in una celebre intervista: “La Bussola e la Capannina sono i luoghi più seri per sedurre: chi li frequenta non ha problemi di tempo. Si può osservare con calma. Si beve una cosa, la si offre. Si ascolta musica”. Altro che marketing!
Lo lascio dopo che i proprietari avevano rifiutato una offerta di acquisto. Mio padre diceva: “I Guidi non stanno in affitto”.
Non una, ma dieci volte. Ma io e Carla andiamo prima a Bologna. Vado a vedere lo Sporting Club, un locale di cui mi aveva parlato Morandi costruito in uno scantinato. Ci si entrava con le scale mobili.
Me ne innamorai subito.
In un solo colpo cambiai di nuovo tutto: cedetti lo Sporting, entrai nella Fiorentina. E…
È l’anno della Febbre del Sabato sera, della disco music… Porto nel locale tutta la mia storia passata, da Patty Pravo a Fred Bongusto, e tutta la mia storia futura, da Beppe Grillo, a Gigi Proietti, da Roberto Benigni ad Ornella Vanoni, a Grace Jones…
Un mostro, ovviamente sul palco. All’inizio suonava anche… blues. Come artista toccò il top negli anni ottanta, quando sviluppò la parte economica e satirica.
Veniva giù la sala per le risate. Ma ecco l’aneddoto. Entrava prima dello spettacolo, con me e mi diceva: “Chi c’è in prima fila. Chi è quella signora? Come si chiama il sindaco? Dov’è seduto il prefetto?”.
Poi durante lo spettacolo quei nomi saltavano fuori tutti, e tutti al momento giusto: la battuta sul sindaco, l’accento al prefetto, la stoccata alla signora ricca. Sembrava che conoscesse tutti da sempre, e che tutti finissero nel suo show. Una memoria pazzesca.
Si, dopo, quando gli spettacoli sono diventati politici, si rideva meno. Dopo una serata alla Capannina ho capito che stava andando da un’altra parte.
Romano Mussolini. Un grandissimo professionista, molto amato, per la sua musica. Mai una serata sbagliata.
Chiunque. Ma ti posso raccontare di una sera in cui arrivano Flavio Briatore e Naomi Campbell?
Ah, certo. Ad un certo punto della serata salgono sul tavolo e iniziano a ballare lì sopra.
Mando un caposala perché spieghi a questo signore quello che penso: “Qui, in questo locale siamo un po’ diversi. Si scende dai tavoli o si va via”.
Si mette a ridere e replica: “Ah si? Allora mi compro tutto il locale!”.
Gli mando una bella bottiglia di vino omaggio e un invito: “Non ripresentarti più”.
L’anno dopo Briatore ha comprato il Twiga e ha iniziato a fare le serate ad ingresso libero e consumazione obbligatoria.
Pensa, un film destinato a diventare di culto, per la Capannina e per la Versilia, ma più volte rischiò di saltare…
Chiesi che ci fosse un grande nome per garantire il botteghino e trainare gli altri meno noti. Grazie a questa richiesta si scritturò Virna Lisi.
Un classico. A metà delle riprese stavano sforando il budget. Angeletti e De Micheli, i due produttori, dissero: “Basta, la chiudiamo qui”. Poi intervenne l’agente di Jerry Calà, Claudio Bonivento, e fece da garante.
Che per Sapore di sale 2 si scelse la Filmauro. E che Bonivento fu così bravo che divenne orditore.
La voce fuori campo del narratore e la scelta sulle canzoni anni sessanta. Non solo perché erano belle, ma perché così portammo al cinema due generazioni.
Ti ricordi i Coreana? Pensavano di essere dei fenomeni, non furono per nulla divertenti.
Renzo Arbore. Un grande della tv, come tutti sanno, ma un grande anche un grandissimo artista dal vivo.
Maurizio Ferrini.
Ma senza il suo tocco nazional-popolare. Ti svelo un segreto…
Mettersi fermo, all’uscita del locale, a guardare le facce. Ad ascoltare i bisbìgli. Tu capisci tutto, di un artista, solo quando lo spettacolo è finito.
Che la sua comicità lasciava il dubbio. Le mogli sussurravano ai mariti: “Mi spieghi cosa ha detto?”
Ivana Spagna.
La apprezzavo. Ma non credevo che arrivasse a tanto. Ho scoperto poi che conosceva la musica, che era molto preparata. Che sul palco inchiodava tutti.
Armando Trovaioli. Il senso innato della melodia, unito alla capacità di far sognare, e ballare, tutti.
Ehhhhhh…che dirti?
Smaila è sicuramente più preparato. Però Calà fa sorridere.
Sommerso da applausi. Ma non ho voluto ripetere. Si crede stupidamente che la gente voglia solo ballare ed evadere: invece è ancora più contenta quando l’intrattenimento ha contenuto.
(Sospiro) se mi dici un altro che ha la popolarità del Costanzo di allora…
Poi tutti: la Cuccarini, la Parodi, Carmen Russo. Tutti successi. Un mostro sacro: Gigi Proietti, venne con “A me gli occhi please”. Avessi avuto dei tavolini sul soffitto avrei venduto anche quelli.
L’unico fine anno della sua storia. Un improvvisatore assoluto, si dice. Ma di una pasta particolare: di quelli che hanno già scritto nel cervello tutto quello che voleva fare.
Nicola Arigliano. Mi fece successo anche al piano bar.
Bruno Martino: un successo strepitoso.
Barry White. Ci sono serate che tocchi il cielo con il dito e dici: di più non si può fare.
Uhhhhh…
Mi è andata male. Con due grandi artisti.
Uno per cui ho sofferto molto Yves Montand. Grande attore ma anche grande cantante. Non tutti sanno che si chiamava Ivo Livi. E che era emigrato dall’Italia a Marsiglia all’avvento del fascismo.
Esatto: era nato a Monsummano terme, Provincia di Pistoia.
Lo avevo corteggiato, vezzeggiato, gli avevo scritto, avevo parlato anche con il suo agente, avevo già trovato l’accordo con l’agente.
Poi quando si arrivò al contratto il dolore di quello strappo da ragazzo, e di quell’esilio tornarono a galla. L’agente mi disse: “Yves non canterà mai più in Italia”.
Ella Fitzgerald. L’usignolo del jazz, la più grande di tutte, tre ottave di estensione vocalica. Chiamai Norman Granz il suo produttore, gigante della musica, figlio di ebrei ucraini. Personaggio straordinario.
Nel 1994 eravamo già l’accordo su tutto. Non stavo nella pelle. Poi arrivò una brutta notizia.
“Soffre di diabete” – mi riveló Granz – le hanno appena tagliato le gambe”. Rimasi di stucco. Smise di fare concerti. E due anni dopo arrivò la notizia che di quel male Ella era morta.
È l’ultima legge della Capannina: gli unici che non sono riuscito a scritturare sono morti.
Ahhhhh… ma sul piano dello spettacolo.. C’era la festa nazionale dell’Unita a Tirrenia. E avevamo una serata pazzesca, con Francesco De Gregori.
Vengo contattato dalla Dc che aveva la Festa dell’amicizia a Viareggio: “Ci serve un nome pazzesco”.
(Risata) L’unico modo era scavalcarli a sinistra e in alto…
Ho portato Neil Young.
Ehhhhh venne per me.
Un altro che è stato un pilastro della Capannina, Franco Califano, era uno degli uomini più corteggiati che io abbia mai conosciuto.
Facevano a gara. Alla fine stava male. Mi chiamò sette giorni prima di morire, e mi disse: “A’ Gherà, vieni a trovamme a Roma, se famo du’ spaghi all’ amatriciana”.
No, devo confessarlo. Mi faceva troppo male saperlo ammalato, stanco, il contrario del leone che avevo conosciuto in Versilia.
Io? Io non parlo di soldi e di donne. Ma mi piace molto una frase dell’avvocato Agnelli.
“Le più belle non sono quelle che quando passa fanno fischiare tutti, ma quelle che fanno calare il silenzio”.
Ascoltami, ci ho pensato per tutta questa tristissima primavera: la paura fa sempre tristezza. E noi, insieme al virus, abbiamo combattuto contro la paura.
Dopo il primo, con la mia storia, ne ho appena finito uno, poi narrativo. In stile… Eh eh eh. (Ride)
È un po’ alla Camilleri.
È una cosa naturale. Ma non per me.
(Ride) ho deciso che in pensione non ci voglio andare mai.
Ma certo. Sto già pensando al prossimo capodanno.