Amato, odiato, venerato come un dio, temuto come la peste: questo è il cinghiale. Una specie che continua ad animare i social con video che la ritraggono al mare, a fare la spesa, a devastare campi o peggio ancora, a causare incidenti stradali. Insomma, la gestione di questo ungulato si è rivelata estremamente complicata soprattutto quando le scelte sono frutto di atteggiamenti da “fede calcistica” piuttosto che basate su indicazioni scientifiche.
Perché siamo arrivati a questo punto?
Quaranta, cinquant’anni fa il cinghiale in molte aree italiane era un miraggio e dove era presente non costituiva un problema. In pochi anni è riuscito a conquistare tutto il territorio utile alla specie e basta poco: acqua, cibo ed un minimo di zone rifugio. Diverse le cause di questo aumento quasi esponenziale dal punto di vista territoriale e numerico: trasformazioni sociali, ambientali e venatorie che hanno concorso a creare la “problematica cinghiale”. Innanzi tutto, l’abbandono della campagna e l’aumento dei boschi due azioni che procedono di pari passo e che hanno visto le aree boscate italiane aumentare di oltre 600.000 ettari dal 2005 al 2015, mentre calava di pari passo la superficie agricola utile (7° Censimento Generale Agricoltura) e la percentuale di popolazione rurale dal 42% degli anni “60 al 29% del 2020 (WBA data collection). Tutto a beneficio di specie opportuniste o come nel nostro caso a vantaggio degli ungulati in generale, cinghiale in primis.
Anche la rete di aree protette ha giocato un ruolo fondamentale. Il territorio a caccia chiusa supera la superficie di Umbria e Toscana e in questi territori per anni la specie non è stata oggetto di alcun controllo. Se a questo aggiungiamo la capacità di crescita numerica del cinghiale che sfiora la possibilità, su scala locale, di triplicare la popolazione in un anno unita alla diminuzione dei cacciatori che da 1,5 milioni del 1990 sono passati a poco più di 400.000 nel 2020, il danno diventa irreparabile.
Per correttezza va aggiunto che fino al 2015 in molte regioni italiane era consentito il ricorso a ripopolamenti a fini venatori, ma in realtà questo processo ha solo accelerato i tempi del processo. E, come spesso accade, non siamo stati capaci di leggere il fenomeno ed intervenire con azioni gestionali di prevenzione in grado di contrastarne l’aumento.
Quali azioni gestionali proposte
Fermo restando che non esiste una soluzione unica nella gestione della specie e che nessuno ha una bacchetta magica, sono note tuttavia, indicazioni tecniche che se ben applicate potrebbero contribuire a ridurre la problematica, ma troppo spesso trovano resistenza politica per pressioni del mondo venatorio e ambientalista. Soprattutto da parte di quest’ultimi si preferisce sbandierare soluzioni di “pancia” semplicemente perché considerate incruente, senza verificarne le fondamenta scientifiche e portate avanti con convinzione tanto da farle passare come una vera e propria panacea. Si tratta di metodi che non prevedono l’abbattimento degli animali come il controllo della fertilità o le catture in alternativa all’attività venatoria accusata di essere fonte del problema.
Il controllo della fertilità è stato sperimentato attraverso sterilizzazione chirurgica, controllo ormonale o con vaccini contraccettivi, su diverse specie dai roditori a i canguri, sul cervo coda bianca fino agli stessi cinghiali con risultati non proprio incoraggianti. Su quest’ultima specie i modelli di un recente studio (Croft., et al., 2020) mostrano come il solo controllo della fertilità non sia sufficiente a raggiungere l’obiettivo di riduzione del numero di cinghiali, ma se associato alla rimozione degli animali può dimezzare i tempi di diminuzione delle popolazioni. Ma rimane il problema dei costi. Un programma di sterilizzazione dovrebbe interessare percentuali intorno al 60% degli individui di una popolazione, in una popolazione di 1.000 cinghiali bisognerebbe catturarne 600, ma con quali uomini, quali mezzi e quali risorse? Inoltre i cinghiali se pure sterilizzati e liberati per diversi anni continuerebbero ad avere un impatto non trascurabile sull’agricoltura e sugli ecosistemi, ignorando potenziali impatti sui solo predatori e su chi consuma le loro carni.
Anche l’aumento dei predatori in particolare il lupo aiuta a controllare il cinghiale, ma non incide se non per percentuali insufficienti stimate in Italia sotto il 10% (Bassi et al., 2020).
Tra le “bufale” di maggior successo sul Web due su tutte, ovviamente smentite dalla scienza: il cinghiale incrociato con i cinghiali dell’Est Europa molto più grossi e prolifici e la caccia che prelevando la femmina dominante provocherebbe la riproduzione di tutte le femmine del branco facendone aumentare il numero. Le popolazioni italiane di cinghiale nonostante le operazioni di introduzione con individui di origine straniera o i ripopolamenti o traslocazioni con esemplari provenienti da altre parti del nostro Paese, mostrano una diversità genomica generalmente molto bassa frutto dell’annullamento da parte dei cinghiali autoctoni del flusso genetico degli animali di provenienza estera (Scandura et al., 2022). In pratica dal punto di vista genetico prevale la parte autoctona rispetto agli effetti causati dall’introduzione di sottospecie di cinghiali provenienti da altri parti d’Europa.
Altra tesi molto popolare vede la caccia responsabile della crescita numerica dei cinghiali. L’equivoco nasce nella trasposizione al cinghiale di quanto avviene, secondo alcuni ricercatori, sui roditori. La tesi è che i branchi di cinghiale siano strutturati in una società matriarcale nella quale solo una femmina “la matriarca” parteciperebbe alla riproduzione, inibendo con uno specifico ferormone l’estro delle altre femmine. Abbattendo questa femmina con la caccia tutte le altre femmine del branco si riprodurrebbero con conseguente aumento della popolazione di cinghiale. È inutile dire che oltre a non esistere alcuna evidenza scientifica questa tesi annulla tutti i vantaggi del branco, dalla difesa dei predatori ad una migliore ricerca del cibo. Non a caso il cinghiale è uno degli ungulati con il più alto tasso riproduttivo proprio per massimizzare, quando le condizioni di alimentazione lo permettono, la possibilità di riprodursi sfruttando la capacità portante dell’ambiente.
Molto più accettato dall’opinione pubblica è l’utilizzo di trappole non cruente (chiusini). Le trappole fisse o mobili di diverse dimensioni se gestite da personale preparato, funzionano molto bene e presentano due grossi vantaggi. Il primo è che riescono ad attirare e catturare i cinghiali anche in zone impervie grazie all’uso di esche attrattive, il secondo e molto più importante vantaggio è costituito dalla possibilità di rimuovere la parte produttiva della popolazione di cinghiali, la maggior parte delle catture è costituita da femmine e piccoli. Ma i chiusini hanno lo svantaggio di avere costi di gestione medio alti, sono facilmente sabotabili e, particolare non indifferente, alla luce della normativa attuale, gli animali sono comunque conferiti ad una struttura di macellazione.
Come si può intervenire?
Come già detto non esiste una ricetta unica ed efficace per controllare la specie, ma bisogna agire con azioni gestionali omogenee nei territori di riferimento, senza limiti di confini tra aree venabili e aree precluse alla caccia. Ricordiamoci sempre che stiamo parlando di una specie invasiva ed impattante inclusa nell’elenco 100 of the World’s Worst Invasive Alien Species redatto dal gruppo ISSG – Gruppo di studio sulle specie invasive della IUCN l’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura. Nel frattempo abbiamo in Italia tre focolai di Peste Suina Africana con gravi conseguenze sanitarie ed economiche nei territori interessati.
La normativa italiana differenzia il prelievo oltre che in forma singola o collettiva anche in tempi diversi durante l’arco dell’anno. Una seconda distinzione riguarda le differenze tra caccia e controllo, semplificando: si controlla la specie nelle aree protette, si caccia nel restante territorio con programmazione affidata ad enti di gestione es. Ambiti Territoriali di Caccia o Comprensori alpini.
Volente o nolente il mondo venatorio concorre a controllare la specie in maniera volontaria così come contribuisce economicamente agli indennizzi. Ma la popolazione di cacciatori diminuisce di anno in anno ed ha un’età media sempre più alta, tanto che da più parti si invoca la creazione di cacciatori professionisti in grado di operare tutto l’anno.
Intanto serve una revisione della normativa ferma agli inizi degli anni ’90, quando le condizioni del cinghiale ed il contesto territoriale era molto diverso da quello attuale. Di pari passo occorre migliorare l’attività venatoria sotto vari punti di vista: dalla sicurezza nel maneggio delle armi, all’uso di tutte le forme di prelievo: singole, collettive, con i cani e senza cani, dagli aspetti sanitari a come cucinare le carni. Ma soprattutto bisogna programmare le azioni gestionali su basi scientifiche. Prelievo, catture, prevenzione dei danni, monitoraggi sanitari, stime di popolazione e quanto previsto nei Piani faunistici venatori regionali devono essere messi in atto con il coinvolgimento di mondo agricolo, ambientalista e venatorio. Le soluzioni scientifiche e gestionali esistono, ma spesso si scontrano con la gestione “politica” dell’attività venatoria o la visione di singoli funzionari regionali o negli enti di gestione delle aree protette. Anche lo sviluppo di filiere della carne del cinghiale e di tutti gli altri ungulati selvatici è diventata una necessità. Se opportunamente valorizzata l’uso delle carni degli ungulati può generare un indotto economico non trascurabile specie per le aree montane e rurali. Poi si tratta di carne a chilometro zero, totalmente biologica, con altissimi valori nutrizionali e soprattutto ecologicamente compatibile, non dimentichiamolo.