IL MITO DELLA CRESCITA VERDE

Una sfida globale e decisiva, più Pil con meno energia e materie prime. Il decoupling è possibile?

AMBIENTE
Alessio Mariani
IL MITO DELLA CRESCITA VERDE

Una sfida globale e decisiva, più Pil con meno energia e materie prime. Il decoupling è possibile?

È auspicabile che la crescita economica continui? Una domanda violenta e forse paradossale.

Da molto tempo, la crescita offre lavoro, reddito, beni accessibili, servizi e dividendi azionari, garantisce la tenuta socio-economica della civiltà moderna nella quale viviamo. Eppure la domanda si pone con forza. Quando l’economia cresce: l’impiego delle risorse non rinnovabili, il ritmo di estinzione delle specie, il degrado del suolo e soprattutto l’inquinamento dell’aria o dell’acqua crescono a loro volta. Anche un ambiente salubre è necessario al benessere umano. Così dopo secoli di crescita, a globalizzazione compiuta, crisi ambientale e cambiamento climatico spingono il sistema verso un collasso doloroso. Il primo rapporto al Club di Roma, I limiti alla crescita (1972), ha studiato bene la problematica. Collasso significa impennata del tasso di mortalità e crollo della quantità di beni e servizi disponibili in media per ogni essere umano. Una tragedia.

Fermare la crescita economica pare necessario dal punto di vista della sostenibilità ambientale e intollerabile da quello socio-politico.

In questo modo, istituzioni importanti quali Onu, Banca Mondiale, Unione Europea hanno accettato la prospettiva del disaccoppiamento o decoupling. Ad esempio con il Green Deal europeo, volto alla ricerca di una crescita economica “dissociata dall’uso delle risorse”. Mentre, dal marketing alla politica, auspici di “crescita sostenibile” o “crescita verde” prevalgono nella narrazione.

Dal punto di vista scientifico il termine più preciso è quello di “disaccoppiamento” ma occorre definirlo bene.

Due valori risultano accoppiati, quando l’evoluzione dell’uno dipende proporzionalmente da quella dell’altro. Al modo di un serpente che cresca di un metro, per ogni chilogrammo di cibo mangiato. Nel caso di un disaccoppiamento relativo, il serpente necessiterebbe di sempre meno cibo per mantenere la stessa crescita. Mentre, nel caso del disaccoppiamento assoluto, cibo e crescita diverrebbero variabili completamente indipendenti l’una dall’altra.

Oggi, la crescita economica comporta la crescita delle emissioni di anidride carbonica e degli altri impatti ambientali negativi: possibile un disaccoppiamento? Sbagliare risposta significa fallire l’obiettivo climatico. Nonostante il disinteresse della discussione pubblica, gli studi sull’argomento sono numerosi. La rivista scientifica “The lancet” ha segnalato tre lavori di sintesi: Decoupling for ecological sustainabilityIs green growth possible?, nonché Il mito della crescita verde (Lu::Ce, 2020), tradotto e pubblicato in Italia. Da leggere attraverso le categorie interpretative di globalità, sufficienza, permanenza ed equità.

La sfida decisiva è globale. Disaccoppiamenti legati ad impatti quali l’inquinamento di un certo fiume o il degrado di un certo suolo, vanno studiati a livello locale. L’atmosfera terrestre invece è una sola. Il riscaldamento climatico, le emissioni di anidride carbonica non hanno confini.
Spesso i paesi ricchi vantano un “disaccoppiamento da delocalizzazione”, confrontando la crescita economica con le emissioni del proprio territorio, alleggerite dalle produzioni trasferite altrove; quindi importano i prodotti e accusano il poveretto che gli ha costruito il telefonino, d’inquinare. L’operazione è fuorviante e immorale. Un calcolo corretto deve rapportare la crescita del Pil alle emissioni territoriali e dei beni consumati nel territorio, compresi quelli importati, dalla produzione al fine vita.

Poi occorrono sufficienza, permanenza ed equità.
– Un disaccoppiamento che non riuscisse ad impedire l’emissione di altre 580GtCo2 (gigatonnellate di anidride carbonica), fallirebbe.
– La crisi finanziaria del 2007/2008 ha provocato un disaccoppiamento temporaneo, né utile né auspicabile.
– Il disaccoppiamento dei paesi ricchi deve essere tale da permettere ai poveri di continuare la crescita. Il che, nel caso europeo, significherebbe portare il taglio delle emissioni, desiderato per il 2030, dal 40% al 71%. L’equità è difficile.

Il disaccoppiamento assoluto globale non è in corso, almeno per il momento. Per non parlare di permanenza e sufficienza. Meglio osservare alcuni casi limitati.
I disaccoppiamenti infinitesimali: tra il 2007 e il 2015, l’Aea (Agenzia europea per l’ambiente) ha registrato una diminuzione delle emissioni dell’1% annuo, contemporaneamente alla crescita economica. Con una riduzione simile farà caldo.
I disaccoppiamenti momentanei: quando negli Stati Uniti, il gas di scisto iniziò a soppiantare il carbone, nel corso delle annate 2000-2001, 2005-2006 e 2010-2012, il pil crebbe e le emissioni scesero. Tuttavia, estendendo lo studio dal 2000 al 2014, la riduzione risulta pari allo 0.006, un miglioramento irrilevante e destinato a scomparire con l’estensione del periodo in esame.

Infine, quasi tutti gli studi che hanno calcolato un disaccoppiamento assoluto, non hanno considerato l’effetto delocalizzazione (in realtà nel periodo 2007-2015, le emissioni europee sono aumentate), hanno beneficiato della crisi economica del 2007-2008, utilizzano complessi modelli matematici tendenti a sottostimare l’impronta di carbonio dei prodotti importati e soprattutto escludono l’inquinamento provocato da navi e aerei. Il volo europeo ha emesso il triplo della Co2, risparmiata da tutto il preteso disaccoppiamento 2007-2015.

Il disaccoppiamento in futuro? Che un disaccoppiamento, assoluto, permanente e sufficiente non si sia mai verificato è un dato significativo; tuttavia ciò non esclude che accada in futuro. Una possibilità remota, i motivi per non attenderla sono forti.

– Il trasferimento degli impatti da un settore all’altro: estrarre i minerali necessari alle produzioni rinnovabili inquina.
– I limiti intrinseci del riciclo: per definizione il riciclo non permette di produrre più oggetti di quelli buttati, e in realtà nemmeno di sostituirli tutti.
– La terziarizzazione dell’economia: i servizi inquinano in maniera significativa, l’informatica non è immateriale e aggiunge il proprio impatto a quello dei settori tradizionali, senza sostituirli.
– Le delocalizzazioni: inquinare da un’altra parte non significa inquinare meno.
– I limiti del progresso tecnologico: mal direzionato, lento nei trend rispetto a scadenze vicine, ricco di effetti collaterali imprevisti e scoperte dannose. Dopo cinquant’anni, la critica all’ottimismo tecnologico del primo rapporto al Club di Roma si è rivelata corretta.
– L’effetto rimbalzo o paradosso di Jevons: fin dai tempi della Rivoluzione Industriale, i miglioramenti di efficienza della macchina a vapore incentivano a comprarne un’altra e bruciare più carbone. E le forme del paradosso aumentano, un’automobile efficiente permette di risparmiare soldi per acquistare un biglietto aereo o altri prodotti.

Osserviamo meglio i motivi legati all’energia. I giacimenti facili, di idrocarburi e minerali scarseggiano. Occorre trivellare a profondità maggiori, estrarre una maggiore quantità di risorsa intermedia da raffinare, provocando impatti ambientali per unità di prodotto finale e costi sempre più alti; il contrario del disaccoppiamento.
Molto interessante è poi la traiettoria dell’Eroei (Rendimento energetico sull’energia investita).
Immaginiamo un Eroei di 1:1, l’energia contenuta nel barile di petrolio sarebbe pari a quella necessaria a estrarlo. Per fortuna non è così. Ciò nonostante l’Eroei di petrolio e gas è passato dal 33:1 del 1999 al 18:1 del 2005; portando l’Eroei globale medio attorno al livello di 6:1.
Di solito, il ritorno energetico delle rinnovabili è basso. Se entro il 2050 l’energia pulita dovesse raggiungere – nelle diverse simulazioni – il 30% o 50% della produzione globale, l’Eroei scenderebbe rispettivamente alle proporzioni di cinque e tre a uno. Il che significa: energia costosa.
Secondo diversi economisti, costi dell’energia molto alti tendono a impedire la crescita economica; possibile a condizione che la bolletta non superi una certa percentuale del Pil, registrata tra il 5.5% e l’11%.

E sempre riguardo al rapporto tra crescita e rinnovabili verso il 2050, l’Irena (International Renewable Energy Agency) ha ipotizzato un Pil libero di espandersi assieme al conseguente fabbisogno di energia, una riduzione dell’intensità energetica del 2.8% annuo (doppio del miglior dato storico) e un riscaldamento climatico pari a due gradi: significherebbe chiedere al sole e al vento: 12.200gw.
Moltissimi gigawatt e parecchi gradi ma fermare il riscaldamento al consueto grado e mezzo, imporrebbe la costruzione di una centrale nucleare al giorno o l’equivalente capacità rinnovabile.

“La letteratura sul disaccoppiamento è un pagliaio senza ago. Di tutti gli studi esaminati, non abbiamo trovato alcuna traccia che giustifichi le speranze attualmente investite nella strategia di disaccoppiamento. Nel complesso, l’idea che la crescita verde possa affrontare efficacemente le attuali crisi ambientali non è sufficientemente supportata da basi empiriche”. (Timothée Parrique et al., Il mito della crescita verde, Massa, Lu::ce, 2020).

Alla fine nessuna crescita verde. Il disaccoppiamento non è nuovo. Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e Commissione Europea tentano da vent’anni. Alcuni stati anche da prima. Esperienza e analisi di prospettiva, mostrano che la “crescita verde” non è possibile, a meno di ipotizzarla in un futuro tanto lontano, da superare la capacità di previsione dei modelli, a temperature ormai troppo alte.
Assumere che il Pil possa crescere senza maggior produzione, maggior consumo e maggiori impatti ambientali significa mettere la testa sotto la sabbia del deserto. Purtroppo, un’economia in crescita richiede più materie prime e provoca impatti ambientali maggiori.
La crescita infinita in un mondo finito è impossibile, attività finanziarie ed economia immateriale non hanno dimostrato il contrario e non lo faranno in futuro. Il primo rapporto al Club di Roma fu chiaro: l’unico scenario in grado di evitare il collasso è quello che pone un limite a popolazione e capitale industriale, ovvero a produzione e consumo.

Difficile che l’uomo moderno accetti confini simili. Più probabile che la crescita continui fino ad incontrare i limiti fisici della natura e le tendenze profonde, demografiche e delle produttività.
Certo, le comunità dovrebbero reimparare a vivere senza crescita economica. Il disaccoppiamento possibile da perseguire, è quello tra crescita e felicità.