NELLA VITA CI VUOLE FORTUNA

I racconti del prof. Stefano Grifoni: ogni riferimento a fatti e personaggi non è puramente casuale.

RUBRICA
Stefano Grifoni
NELLA VITA CI VUOLE FORTUNA

I racconti del prof. Stefano Grifoni: ogni riferimento a fatti e personaggi non è puramente casuale.

Era quasi ora di cena, mi tolsi il camice e indossai la giacca blu.

Uscendo dalla stanza vidi un signore barbuto venire verso di me. Appena mi raggiunse chiese: «È lei il dottore?». «Sì» risposi. «Lei dovrebbe essere l’avvocato Alberto. Pensavo che non venisse più». «Scusi,» rispose «motivi di servizio». Riaprii la stanza e lo feci accomodare su una poltrona.

«Se deve andare, dottore, rimandiamo». «No, no, la prego» risposi.

Appena seduti iniziò il suo racconto esponendolo in maniera precisa e con termini appropriati. «Piegare il ginocchio mi dà molto dolore, che aumenta specie quando faccio una strada in salita.» Alberto era un uomo di sessantatré anni piuttosto grassoccio, il viso tondo, una pancetta che usciva dalla camicia sbottonata e aperta a livello del collo. Disse: «Vede, non riesco nemmeno a piegarmi, mi prende subito…».«L’affanno» aggiunsi. «Lei respira con difficoltà». «Quando salgo le scale di casa mi devo fermare perché mi manca l’aria» disse. «Il dolore mi impedisce di camminare.» Alberto era un uomo amante del cibo e del buon vino ma molto sedentario; non amava passeggiare. «Purtroppo il mio peso aumenta perché non mi posso muovere data la mia situazione». «La devo visitare» gli dissi. Lui si mise in piedi e sollevò il pantalone della gamba destra fino al ginocchio.

«Si tolga il vestito, la camicia e si distenda sul lettino.»

Rimase sorpreso dalla mia richiesta. Alla visita il cuore era tachicardico mentre non si apprezzava nulla a livello polmonare. Sottoposi Alberto a una ecocardiografia che mise in evidenza la dilatazione del ventricolo sinistro probabilmente responsabile dell’affanno di cui lui si lamentava. Le indagini angiografiche successive eseguite con la Tac mostrarono la chiusura di due arterie coronarie. Alberto doveva essere operato e anche velocemente. Quando glielo dissi assunse un’espressione molto preoccupata, appesantita dal fardello non visibile della sua situazione clinica. «Quindi devo operarmi. Posso anche morire». «Quando si tocca il cuore può succedere sempre di tutto» risposi, e aggiunsi: «Deve rimanere in ospedale in attesa di fare l’intervento».

Uscimmo insieme dalla stanza e io lo accompagnai nel corridoio verso il reparto. All’improvviso il volto di Alberto diventò pallido, si mise una mano al petto prima di perdere conoscenza e rimanere immobile sul pavimento del pronto soccorso come morto. Era morto. Quella stessa sera Alberto tornò a casa e poiché non aveva fame si mise seduto in poltrona. Nel buio della sua camera la luce del televisore trasformò le pareti della stanza in ampi corridoi dalle mura verdi dove venivano raccolti i corpi nudi dei pazienti che uscivano da una sala operatoria. C’erano anche delle porte che davano sul tavolo operatorio. Uomini vestiti da chirurgo toglievano organi con perizia scientifica, li cambiavano di posto e parlavano fra di loro mentre operavano. In quei gesti i chirurghi erano molto sbadati. Un tecnico rimase impigliato in una matassa intestinale, un altro non riusciva a togliere la mano dal torace di un paziente e stava chiedendo aiuto agli altri chirurghi che operavano vicino a lui. Una voce melodiosa di donna parlava a tutti i presenti attraverso degli altoparlanti invitandoli a distendersi sui tavoli operatori.

Ad un tratto tra queste persone Alberto vide un uomo con la barba. Era sorprendentemente uguale a lui. «Lei che ci fa qui?» gli chiese uno dei presenti. «Mi devo operare alle coronarie, ancora non ci credo, sono andato dal medico per farmi vedere un ginocchio e lui mi ha detto che respiravo male e che era il cuore». L’altro rispose: «È sempre così quando vai dai dottori». Gli occhi di Alberto si stavano chiudendo dal sonno. Spense il televisore. Si distese sul letto della sala operatoria, le braccia aperte come segno di rassegnazione, e si addormentò. Dopo poche ore sudato e pallido volse lo sguardo all’orologio: era già mattino. Si accorse che respirava meglio. Aprì la camicia e si guardò il torace dalla parte del cuore: nessuna ferita chirurgica. Fece per alzarsi ma si accorse che era attaccato a un monitor e a tanti altri fili. Lo andai a trovare: «Buongiorno Alberto, lei è un uomo fortunato, il suo cuore ha deciso di fermarsi proprio nel corridoio del pronto soccorso. Ha avuto un arresto cardiaco ma è stato possibile intervenire subito con una angioplastica». Alberto sorrise, mi ringraziò e poi mi disse: «Non mi sono accorto di niente. Ero assente, impegnato in un viaggio misterioso».

Lo guardai e gli dissi: «Tutto questo grazie al suo ginocchio… La vita non è così male se hai un sacco di fortuna, e offre sempre una seconda possibilità: si chiama “domani”». Quando salutai Alberto, mi accorsi che stava piangendo.