Attraversavo il corridoio del pronto soccorso quando il personale mi informò dell’arrivo di un’ambulanza con un uomo in codice rosso: scontro tra due veicoli. Mi soffermai un attimo mentre il paziente stava entrando in stanza visita, disteso su di una barella, accompagnato dai suoi soccorritori. Era cosciente, aveva il collare cervicale, tutte le altre parti del corpo coperte da una metallina (presidio che impedisce la dispersione di calore). Lo guardai, aveva il volto insanguinato ma non era una faccia sconosciuta. Era Antonio. Lo chiamai mettendogli una mano sulla spalla. Antonio sollevò le palpebre e poi le richiuse. Avevamo pranzato qualche ora prima insieme ad altri amici ed era stata una piacevole occasione conviviale che aveva dato vita a una serie di divertenti conversazioni. «Aveva ragione mio padre quando mi diceva di prendere un pezzo di carta (la laurea) e di fare poi quello che mi pareva. Dovevo ascoltarlo, probabilmente oggi non avrei i problemi che ho» disse Fabio.
Eugenio che vendeva libri prese la parola: «Talvolta basta mettersi a sedere e avere un po’ di tempo per parlare con altre persone che si è portati a ricordare. Forse il ricordo serve a tappare i vuoti e i silenzi di una riflessione». Erano arrivati gli antipasti quando Ermanno disse: «Io odio i ricordi perché talvolta mi fanno riflettere sugli errori compiuti». «Io ne ho molti, un primo incontro, un tramonto, un bacio sotto la pioggia, un appuntamento mancato» dichiarò Andrea. Corrado raccontò di un viaggio su di una isola, il colore verde del mare che la circondava, il forte odore dei gelsomini che gli ricordava il profumo del suo primo amore. Nino stava ascoltando con attenzione e disse: «La magia dei ricordi risiede nella bellezza delle cose semplici, quelle più nascoste e che spesso passano inosservate, quelle che solo un cuore sensibile sa percepire. Da piccolo vivevo in campagna e credevo nell’esistenza delle fate, degli gnomi, degli elfi, delle streghe, e ancora oggi continuo a credere nella loro esistenza. Tu che ne pensi, Matteo?». «Io credo in ogni cosa fino a quando non si dimostra il contrario. Tutto esiste anche se nella nostra mente.» Nino continuò il suo discorso: «La razionalità purtroppo ha preso il sopravvento: nessuno sogna più, gli ideali finiti, ci siamo persi. Di notte mi siedo in una poltrona, prendo un ansiolitico e aspetto l’alba». Carlo gli disse: «Ti metti su una poltrona larga, morbida e bionda». «Non ho detto niente di simile e la poltrona non è bionda. A cosa alludi?» chiese Nino. «Tu aspetti che la notte passi, io invece..,» disse Umberto che faceva il pittore «trascorro le ore coricato sul letto in attesa che i miei pensieri prendano forma oppure si dissolvano.» La conversazione andava avanti; tutti cercavano abilmente di evitare il racconto di tragedie, morti, malattie e disgrazie. Arrivarono i primi.
Giulio di un tratto si alzò e cominciò a contare i presenti: «Siamo tredici» disse allarmato. «Non mi ero ricordato che Alfonso ed Enrico non potevano venire perché erano stati ricoverati in ospedale.» «Ogni volta per un motivo o per un altro siamo sempre di meno e oggi siamo in tredici!» confermò Gianni. Pochi alla notizia sorrisero, altri rimasero perplessi, alcuni, i più superstiziosi, in silenzio. Antonio si alzò da tavola che ancora non aveva finito di mangiare, disse che aveva un appuntamento. Più tardi anche io me ne andai.
Quando in ospedale io e Antonio ci rivedemmo dopo i primi accertamenti clinico-strumentali, ci guardammo in silenzio. Lui ad un tratto disse: «Quel camion mi è venuto addosso e non ho potuto evitare l’impatto». Sorridendo aggiunse: «Non credo in certe storie, le trovo assurde, ma sembrava che aspettasse solo me». Dalla Tac e dalle radiografie fortunatamente non emersero fratture né di organi né di osso, solo un lieve trauma cranico e toracico e una forte contusione alla spalla sinistra. Lo riferii ad Antonio e lui sorridendo mi disse: «Caro dottore, io penso che noi tutti viviamo tante volte un numero di avvenimenti già fissato. Poi arriva quel giorno che non si può raccontare ma sono gli altri che lo raccontano al posto tuo». Mi domandò: «Gli amici hanno saputo dell’incidente?».
«Si,» risposi «mi hanno già chiamato. Tutti hanno fatto la solita riflessione: tredici a tavola porta sfortuna.» Antonio disse: «Io non ci credo. È la vita, c’è chi festeggia e chi piange la morte». Mentre parlava vidi spuntare dal suo corpetto un raffinato cornetto rosso e altri oggetti adornavano in modo curioso il suo polso. «Tu pensi che io sia cinico, vero? Forse hai ragione. Non è detto che sia mancanza di cuore o di altro.» «No,» risposi «sono colpito dalla tua indifferenza.» Lui mi guardò e disse: «Non indifferenza, ma rifiuto delle cose a cui non vuoi più credere. Comunque, la prossima volta fate attenzione al numero degli invitati».